La Corte di cassazione, con la sentenza n. 36575 del 10 novembre 2025, si è pronunciata sul tema relativo alla configurazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale, ribadendo che il dolo generico può ritenersi accertato solo ove vi sia la prova che l’agente abbia operato con l’intento di rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore.
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Bologna confermava la pronuncia emessa in primo grado nei confronti dell’amministratore delegato e legale rappresentante della società, con la quale si contestava il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, cui all’art. 216 comma 1, n. 2 della Legge fallimentare.
Con ricorso in Cassazione, l’Imputata contestava l’erronea applicazione della legge penale, lamentando l’erronea qualificazione del reato quale bancarotta fraudolenta documentale, ex art. 216 legge fallimentare, e non bancarotta semplice, ex art. 217 legge fallimentare, e l’illogicità della motivazione, in ragione della mancata valutazione di dichiarazioni rese nel processo a dimostrazione del fatto che l’imputata fosse all’oscuro della gestione della società.
La Corte di cassazione, accogliendo il ricorso, ha chiarito che:
- la mancata tenuta delle scritture contabili, ove frutto di consapevole volontà diretta ad impedire la ricostruzione del patrimonio ed arrecare danno ai creditori integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta documentale “specifica”;
- la tenuta irregolare o inattendibile delle scritture configura la bancarotta fraudolenta documentale “generica”;
- qualora non vi sia dolo, le condotte sopraesposte degradano nella figura della bancarotta semplice documentale.
Nella sentenza impugnata, la Corte di Appello di Bologna avrebbe qualificato il reato come bancarotta fraudolenta documentale “generica”, utilizzando però argomenti propri dell’ipotesi “specifica”, rendendo impossibile ricostruire l’iter logico-giuridico della decisione.
La Suprema Corte aggiunge che, nella sentenza impugnata, i giudici del gravame hanno dedotto la sussistenza dell’elemento soggettivo dalla mera qualifica di amministratrice dell’imputata e dalla sua consapevolezza circa le difficoltà economiche in cui versava la società, servendosi del principio del “non poteva non sapere”, assolutamente estraneo al nostro ordinamento penale.
In conclusione, la Corte di cassazione annulla la sentenza impugnata, in quanto fondata su una motivazione assertiva e generica, ed afferma che il dolo della bancarotta fraudolenta può ritenersi sussistente solo ove risulti provato che l’agente abbia agito con la coscienza e la volontà di rendere impossibile o gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio al fine di recare pregiudizio ai creditori nel caso della sottrazione volontaria o della omessa tenuta delle scritture contabili.
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